MARGUERITE DURAS E IL SILENZIO DEI LUOGHI.
Abbiamo fatto un incontro fortuito con un bel libriccino, e come spesso accade con questi incontri, ce ne siamo innamorati.
Si tratta de ”I miei luoghi”, edizioni Clichy, in cui si legge una godibilissima conversazione tra la grande scrittrice e regista francese Marguerite Duras e la giornalista Michelle Porte, trasmessa alla TV francese nel 1976.
Con analoga acutezza che si vede nei suoi film (un film molto famoso in Italia della Duras è ”L’amante”, che vi consigliamo di vedere), la Duras pensa la casa guardandola da una profondità rara.
La cosa per noi imperdibile di questa conversazione quindi – e che ci piace riportarvi – sono alcune riflessioni della Duras sui luoghi della sua casa. E sul legame delle donne con la casa in generale.
Eccole. Le riportiamo tutte d’un fiato, saltando liberamente di pagina in pagina, così come ci hanno colpito:
”Solo le donne abitano i luoghi, non gli uomini. Questa casa [la sua casa, ndr] è stata abitata da Lol V. Stein, da Anne-Marie Stretter, da Isabelle Granger, da Nathalie Granger, [sono i personaggi dei suoi libri, ndr] ma anche da ogni tipo di donna; a volte quando ci entro ho la sensazione, come… di un brulicare di donne. [...] L’uomo, quando non può nominare le cose, è perduto, è a disagio, è disorientato. L’uomo è malato di parole, le donne no. Tutte le donne che vedo qui all’inizio tacciono; poi, non so cosa avverrà in loro, ma cominciano col tacere, lungamente. Sono incrostate nella stanza, come inserite nei muri, nelle cose della stanza. Quando sono in questa stanza, ho la sensazione di non disturbare niente di un certo ordine, come se la stanza stessa, insomma, il luogo, non si accorgesse che ci sono, che c’è una donna: quella donna aveva già il suo posto. Probabilmente parlo del silenzio dei luoghi. [...] Io in questa casa, con questo giardino, ho un rapporto che gli uomini non avranno mai con un ambiente, un luogo. [...] Si può vedere la casa come un luogo in cui ci si rifugia, in cui si cerca una rassicurazione. Io credo che sia anche un perimetro chiuso su qualcos’altro. Sì, succede qualcos’altro oltre a tutto quello che è evidente, la sicurezza, la sicurezza, la rassicurazione, la famiglia, la dolcezza del focolare; in una casa c’è anche l’orrore della famiglia che vi è inserita, il bisogno di fuga, tutti gli umori suicidi. E’ un tutto. Vede, è curioso, di solito la gente torna a morire a casa propria. Preferisce morire a casa. Appena ci troviamo in un certo marasma vogliamo tornare a casa. E’ un luogo misterioso, la casa, e… non so se nelle città ora si sa cosa è. [...]
Sì. Solo una donna può starci bene, può aderirgli completamente, senza annoiarsi. Non attraverso mai questa casa senza guardarla. E credo che quello sguardo sia uno sguardo femminile. Un uomo ci torna la sera, ci mangia, ci dorme, ci si riscalda, ecc. Per una donna è un’altra cosa, c’è una sorta di sguardo estatico, di sguardo in sé della donna sulla casa, e sulla propria dimora, e sulle cose, che sono ovviamente il contenitore della sua vita. La sua ragion d’essere, praticamente, perfino, per la maggior parte delle donne, che l’uomo non può condividere. [...] D’altra parte è sempre così, perché la casa è fatta per le donne. E’ esattamente come il proletario: il lavoro del proletario appartiene al proletario. Gli strumenti di lavoro del proletario sono del proletario. Allo stesso modo, la casa appartiene alla donna, la donna è un proletariato, come sa, millenario. [...]”
Un ultima nostra riflessione: è singolare la casuale coincidenza con alcune riflessioni di Massimo Cacciari sul carattere dell’architettura di Adolf Loos, nello scritto ‘I bottoni di Lou” (in ”Dello Stheinoff”, Adelphi), in cui il filosofo riflette su uno scritto di André Lou Salomé.
Da leggere… [pgf]